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La nostra storia
Le origini
Il complesso abbaziale delle Tre Fontane è situato sul tracciato dell’antica via Laurentina, in una piccola valle con alberi di eucalipto. Un’area in cui sono tutt’ora presenti storia e tradizioni giunte fin dall’epoca paleocristiana, accanto a reminiscenze di epoche precedenti.
La denominazione più antica di questo luogo è stato “Acque Salvie”. Nome che in epoca medioevale fu dato anche a una tenuta agricola che intanto era lì sorta.
Esistono due tradizioni che spiegano la nascita del nome. Una la attribuisce alla famiglia romana Salvia; secondo l’altra, invece, il nome sarebbe derivato dalla presenza delle abbondanti e salutari sorgenti, tuttora attive.
“Campo di Erode” (Ager Herodis), è un altro toponimo, storicamente accertato, originato probabilmente dalla presenza, in epoca neroniana, della villa di un pretore di Roma di nome Erode Agrippa junior.
Periodo Paleo-cristiano
La nascita del nome “Tre Fontane” è strettamente legata ad un episodio molto importante per la cristianità: il 29 giugno del 67 d.C., presso le Acque Salvie, l’apostolo Paolo viene martirizzato per decapitazione; la tradizione vuole che la testa di San Paolo, recisa, sia rimbalzata a terra tre volte, facendo scaturire, nei tre punti di contatto col terreno, altrettante fonti d’acqua.
Il fatto è testimoniato da documenti. Il più antico risale agli “Acta Petri et Pauli”, del V secolo e di origine greca. Un secondo documento è una lettera inviata da papa Gregorio Magno al diacono Felice, nell’anno 604, in cui il pontefice si diceva convinto che nel luogo fosse avvenuta la drammatica uccisione di San Paolo.
Questi oggi sono i documenti ritenuti più attendibili. Infatti, esistono fonti più antiche che attestano invece, come luogo del martirio di San Paolo, la tenuta della matrona Lucina, sulla via Ostiense: l’errore deve essere forse stato causato dalla confusione con un’altra antichissima credenza, che dice che sulla via Ostiense sono state sepolte le spoglie del Santo, e con il fatto che lì, al tempo dell’imperatore Costantino, venne costruita la basilica di San paolo fuori le mura. In più, nel Chronicon di Benedetto del Soratte (XI secolo), si riporta l’esistenza di un edificio sacro eretto in memoria di San Paolo proprio presso le Acque Salvie, di cui sono rimasti resti epigrafici rinvenuti durante gli scavi archeologici del 1867. C’è da dire, inoltre, che sempre nella piccola valle sulla via Lurentina, circa due secoli dopo il martirio di San Paolo, il 9 luglio del 298, il tribuno Zenone e altri 10203 soldati cristiani, dopo aver terminato i lavori di costruzione delle Terme imperiali, furono travolti dalla follia omicida delle persecuzioni di Diocleziano.
Periodo Pre-Cistercense
È Benedetto del Soratte a riferirci nel Chronicon della prima comunità monastica sorta presso le Acque Salvie: il generale bizantino Narsete, governatore d’Italia (patricius Italiæ), in nome dell’imperatore Giustiniano, costruisce, nella seconda metà del VI secolo, un monastero annesso alla piccola chiesa dedicata a San Paolo – chiesa di cui abbiamo parlato nella pagina relativa al periodo paleocristiano.
Nel Chronicon ci si riferisce al monastero come il «monastero detto ad Aquas Salvias», dove si venerano le reliquie di Sant’Anastasio. I primi ad abitarlo furono monaci greci, arrivati a Roma quasi certamente dopo l’invasione della Cilicia da parte degli Arabi. Della loro presenza abbiamo testimonianza negli Atti del Sinodo Romano, convocato da papa Martino I nel 649: quando si dice che tra i vescovi intervenuti ci fosse anche «il venerabile abate Giorgio, del monastero di Cilicia che sorge alle Acque Salvie della nostra città».
Fu forse la presenza di monaci greci che spinse l’imperatore Eraclio a destinare loro la custodia delle reliquie di Sant’Anastasio, monaco persiano martirizzato per volere di Cosroe nel 624, e a inviarle alle Acque Salvie nella prima metà del VII secolo.
Già nel 650, infatti, il catalogo De locis sanctis Martyrum, che indica i luoghi di Roma che accolgono le tombe dei martiri, cita il monastero dell Acque Salvie come il posto «dove è conservato il capo di Sant’Anastasio e dove fu decapitato San Paolo».
Nel Miraculum Sancti Anastasii Martyris, documento risalente all’VIII secolo, è descritta una guarigione ad opera del Santo:«Fu condotta nella cappella della Santa Madre di Dio e sempre Vergine Maria, dove il Santo e beato Paolo fu decollato, nel luogo chiamato Acque Salvie, dove riposano le venerabili reliquie del martire Anastasio. Poiché nel monastero è vietato l’ingresso alle donne, il vescovo entrò nell’altra chiesa che è presso il monastero, chiamata basilica di S. Giovanni precursore […] domandando all’abate di far portare le reliquie nella chiesa di S. Giovanni».
Questo testo è utile anche perché fornisce indicazioni sulla costituzione del luogo delle “Acque Salvie” tra la fine del VII e l’inizio dell’VIII secolo: è attestata la presenza di una chiesa dedicata alla Vergine, individuabile come la cappella sulla quale sorgerà Santa Maria Scala Cœli e di una chiesa dedicata a San Giovanni, di cui non rimane nessuna testimonianza. Inoltre non sono ancora menzionati il monastero né la chiesa di Sant’Anastasio.
Solo a partire dall’VIII secolo si cominciano a trovare testi che accennino all’esistenza di un monastero ed una chiesa dedicata al martire Persiano. Nel Liber Pontificalis, ad esempio, riguardo la vita di papa Adriano I (772-795) è scritto:«…la basilica ed il monastero del beato martire di Cristo Anastasio […] furono per incuria dei monaci, nel silenzio della notte, distrutti dal fuoco…». Il Papa si interessò subito al restauro degli edifici danneggiati e non mancò di fornire tutti gli arredi necessari in sostituzione di quelli andati perduti.
Nel Liber Pontificalis sono riferite altre donazioni da parte dei Papi che si sono succeduti tra l’VIII e il XI secolo, a dimostrazione della grande importanza per la Chiesa delle Acque Salvie e del monastero di Sant’Anastasio. La più discussa delle quali resta certamente quella fatta da papa Leone III e Carlo Magno, in seguito alla concquista di Ansedonia, in Toscana; alcune carte di epoca tarda riportano che nell’805 Carlo Magno, dopo una serie di conquiste a danno dei Longobardi, pose l’assedio ad Ansedonia.
L’operazione si protraeva ormai da troppo tempo e si avvicinava il 22 gennaio, festa di Sant’Anastasio. Papa Leone III era sul campo, insieme con Carlo Magno, e venne ispirato da un sogno premonitore: fece inviare a Roma alcuni monaci a prendere le reliquie del Santo; quando queste arrivarono di fronte alla roccaforte nemica le sue mura crollarono come sconquassate da un terremoto. Per questo motivo, in segno di riconoscenza, il papa e l’imperatore con un atto firmato congiuntamente, destinarono al monastero di Tre Fontane i territori di Ansedonia, Orbetello, Monte Argentario, Marsigliana e l’isola del Giglio.
Il testo originale è andato perduto, ma rimangono molte trascrizioni e una testimonianza esplicita in una bolla del 1255. Anche se questi documenti non chiariscono definitivamente l’autenticità della donazione rimane il fatto che l’abbazia si è davvero avvalsa dei diritti feudali su queste proprietà tra il IX e il XIII secolo. Nei secoli successivi, prima attraverso una concessione in enfiteusi alla famiglia Aldobrandini di Soana, poi agli Orsini, i territori passarono di proprietà dell’abate di Sant’Anastasio alla municipalità di Siena. Tuttavia, nonostante l’assistenza e l’interesse da parte dei papi, il monastero non sembrò potersi sottrarre a un destino di lenta decadenza. Gregorio VII, verso 1080, tentò di risollevarne le sorti non solo confermando tutte le donazioni fatte, compresa quella di Ansedonia, e restaurando i fabbricati, ma fece venire, forse da Cluny, un gruppo di monaci benedettini, nel tentativo di ricostituire una comunità regolata. Da quel momento dei monaci armeni non si parlerà più, anche se qualche sporadica presenza verrà riscontrata fino al 1300.
Periodo Cistercense
Della comunità benedettina, che subentrò ai monaci greci, si hanno modeste informazioni se si eccettua la data del loro allontanamento. I motivi sono presumibilmente due: la malaria, che nel periodo del soggiorno uccise molti monaci e l’intenzione di papa Innocenzo II di assegnare il monastero ai Cistercensi. Negli Annali del papa è scritto che nel 1140, restaurato il gruppo di edifici, trovato in stato di abbandono e allontanati gli ultimi Cluniacensi rimasti, «lo assegnò per gratitudine a Bernardo e alla Congregazione Cistercense». La gratitudine cui si riferisce lo scritto è quella del papa verso l’operato di San Bernardo a suo favore, durante lo scisma di Anacleto II, che era stato invece difeso dai Cluniacensi.
Proprio in questo periodo, durante i lavori di ripristino degli edifici del monastero, San Bernardo ebbe la visione delle anime del Purgatorio che salivano al Cielo condotte dagli Angeli e che diede poi il nome di Santa Maria Scala Cœli alla chiesa che era lì e che venne ricostruita nel XVI secolo. I lavori di Innocenzo II interessarono la costruzione del monastero e della chiesa adiacente, quella dedicata a Sant’Anastasio – solo dopo il 1370, quando giunsero dal Portogallo alcune reliquie dello spagnolo Vincenzo di Saragozza, la chiesa prese il nome di entrambi i Santi. Ma questa fu consacrata solo nel 1221, perché all’opera del papa seguì molto probabilmente quella dei Cistercensi stessi, per adattare il complesso abbaziale alle loro necessità e al sobrio stile “bernardino”.
Il primo abate del monastero fu Pier Bernardo Paganelli, futuro papa col nome di Eugenio III che successivamente, conoscendo la vita dura in quella zona malarica, resa ancora più rigida dalla regola cistercense, permise ai monaci di vivere durante il periodo estivo nel castello di Nemi, da clima più sano.
Nel 1161 papa Alessandro III conferma il provvedimento e nel documento che ci è rimasto a testimonianza, per la prima volta, appaiono tutti insieme i nomi delle chiese delle Tre Fontane. È questo il periodo di maggior splendore per l’abbazia. I lavori al monastero vengono completati nel 1306, con la costruzione del chiostro e della sala capitolare. Sorgono cinque abbazie figlie: Santa Maria di Casanova vicino a Penne e Santa Maria di Arabona preso Manoppello entrambe in Abruzzo, Sant’Agostino a Montalto di Castro nella Maremma laziale, Santa Maria di Palazzolo sul lago di Albano a sud di Roma e Santa Maria nell’isola di Ponza di fronte al Golfo di Gaeta.
Nel XIV secolo scompare dal monastero la reliquia di Sant’Anastasio. Dal XV secolo comincia per l’abbazia una serie di periodi di crisi e di difficoltà sottoposti anche ai suoi possedimenti. Nel 1408 finalmente le reliquie trafugate vengono ritrovate nella sacrestia di Santa Maria in Trastevere e riportate alle Tre Fontane. Nello stesso anno papa Martino V trasformò l’abbazia in commenda, sopprimendo la figura dell’abate claustrale. La situazione rimarrà tale per molto tempo, salvo brevi periodi e il passaggio dei commendatari lascerà poche testimonianze rilevanti: la ricostruzione completa della chiesa di Santa Maria Scala Cœli (1592-1594), la ricostruzine della chiesa di San Paolo (1599-1601).
Tra il 1638 e il 1670 fu abate claustrale Ferdinando Ughelli, noto per la sua opera sulle diocesi italiane “Italia Sacra”.
Con l’arrivo delle truppe napoleoniche e l’occupazione dello Stato pontificio, le fondazioni religiose vennero soppresse e i monaci cistercensi nel 1808 furono costretti ad abbandonare le Tre Fontane. Il monastero fu privato di tutti i suoi averi, i reliquiari e i preziosi arredi, donati da papi e regnanti nel corso dei secoli. Gli archivi e i testi e codici della biblioteca vennero trasferiti presso la biblioteche Vaticana e Casanatese.
La sorte del monastero non cambiò neanche con la restaurazione del governo pontificio: i Cistercensi erano ormai lontani e quando nel 1826 papa Leone XII visitò l’abbazia, sgomento per lo stato di abbandono che apparve ai suoi occhi, con una Bolla impose ai Cistercensi di affidare le Tre Fontane ai Francescani Minori di San Sebastiano, con l’obbligo di riprendere il culto e ricostituire una comunità. Ma i frati francescani, di fronte a un tale stato di abbandono degli edifici e al clima malsano del luogo, si limitarono a riaprire il complesso abbaziale solo parzialmente e la sera veniva chiuso.
Nel 1855 papa Pio IX, insieme con il Procuratore Generale dei Trappisti, Francesco Regis, che era in visita a Roma, tentò di varare un progetto per il recupero di Tre Fontane, ma il costo previsto ne impedì l’attuazione. Una seconda opportunità si presentò nel 1867, in occasione del Giubileo straordinario per il diciottesimo centenario del martirio dei Santi Pietro e Paolo e soprattutto in seguito a una considerevole donazione da parte del conte di Maumigny.
I monaci trappisti oggi
Con la Bolla del 21 aprile 1868, venne ricostituita una comunità che doveva avere almeno 14 religiosi: l’incarico fu dato ai Cistercensi Trappisti, a cui fu donata l’abbazia. I monaci della Grande Trappa intrapresero radicali opere di restauro degli edifici ma soprattutto si impegnarono a fondo per la bonifica integrale della zona, con la costruzione di sistemi di drenaggio delle acque stagnanti, pericolose anche per le fondamenta delle strutture edificate. La lotta alla malaria ebbe un grande alleato nell’albero di eucaliptus: i monaci trappisti ne piantarono molti, soprattutto dopo il 1870, quando, caduto il potere temporale della Chiesa, i Trappisti riuscirono ad ottenere in enfiteusi perpetua un appezzamento di 450 ettari in cambio, tra le altre condizioni del contratto, di piantare almeno 125.000 alberi di eucaliptus. I lavori di bonifica continuarono fino ai primi del ‘900, quando la copertura di uno stagno nei pressi del monastero e l’uso di zanzariere e di chinino, mise fine al problema malaria. Oggi intorno al territorio dei monaci, intorno alla valle delle Acque Salvie, restituita alla vita e al culto delle sacre memorie, si estende la moderna città di Roma.
L’abate De Rance che diede avvio alla riforma Trappista.